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GIACOMO MANZU’ a 110 ANNI DALLA SUA NASCITA. Un omaggio al grande Maestro e alla moglie Inge, sua musa

inge manzù ardea giacomo

Per ricordare l’importante contributo di Giacomo Manzù nell’arte internazionale, nell’anno in cui cade il 110° anniversario dalla sua nascita (1908-1991) vogliamo condividere un’intervista fatta ad Inge Manzù, moglie e musa del grande scultore, di recente scomparsa. Nel 2011, all’indomani della mostra a lui intitolata tenutasi a Brindisi, ci rilasciò un’intervista che, come omaggio, vogliamo oggi riproporre.

Natalia Di Pasquali – Ricordare un grande Maestro non è cosa semplice, specie quando è stato il compagno di una vita. In che modo questa esposizione si propone di celebrare le opere e la poetica dell’artista?

Inge Manzù – Ha un significato profondo che proprio Brindisi, città protesa verso il mare e i miti dell’antica Grecia, abbia voluto celebrare Manzù in questo anniversario ventennale. Lo ha fatto in modo eccellente con una scelta di opere che ne ripercorrono l’incomparabile vicenda artistica nei suoi vari temi: i Bassorilievi che trovarono nella Porta di San Pietro l’apice della bellezza, i Ritratti, i Passi di Danza, i Busti, le varie Sedie, i Cardinali e le versioni di Tebe, di cui Tebe seduta, “uno dei grandi eventi dell’arte di Manzù”, quantomai indicato al luogo così prossimo alla Grecia. Un filo conduttore che i dipinti, le fotografie e i disegni, i bellissimi disegni di Manzù, completano.

N.D.P. – I temi principali dell’arte di Giacomo Manzù sono sempre stati quelli universali, come l’amore, la guerra, la pace, la morte. Per questo motivo, si può dire che la sua arte e la sua ‘poetica’ siano sempre attuali?

I.M. – Manzù è stato definito da Argan Antico e Moderno, proprio per il suo partire dalla tradizione per guardare non tanto il presente in sé, quindi una attualità mutevole, ma per cogliere nel presente le vibrazioni delle verità prime e ultime dell’uomo. Possiamo dire i valori universali ed eterni come la Pace, verso cui l’umanità è continuamente protesa pur in un cammino pieno di ostacoli e di atrocità.

N.D.P. – Quali tracce ha lasciato Manzù nella memoria collettiva? Qual è l’eredità ideale ed artistica che ha lasciato?

I.M. – Sono molte le tracce nella memoria collettiva. Cito ancora l’importante traccia della Pace: il suo tenere alto il tema della Pace come una missione sentita profondamente dopo il dramma della guerra, da lui percepito ancora prima del suo accadere. Il monumento al partigiano ne è una alta espressione, così pure la devozione alla Pacem in terris e al Concilio di Papa Giovanni, per la luce di speranza portata nel mondo.L’eredità ideale e artistica credo sia la sua onestà nel fare bene qualsiasi soggetto che scaturisse dalla passione. Senza questo fuoco iniziale, l’opera muore tra le mani dell’artista. Era il suo primo insegnamento agli allievi di Salisburgo.

N.D.P. – Cosa avrebbe pensato Manzù dell’arte contemporanea, sempre ricca di installazioni e dove le opere plasmate direttamente dall’artista sono sempre più rare? Come si sarebbe evoluta la sua arte in un contesto del genere?

I.M. – Posso dire con tutta sincerità che Manzù sarebbe andato avanti per la sua strada, come del resto ha fatto in tutta la sua vita, quando già l’arte aveva preso vie diverse che, forse,si andavano allontanando dall’arte stessa. Penso alle sue ultime degli anni Ottanta.L’Altare di Cascia, poesia altissima, risplendente d’oro nei vari temi della Vita, della Grazia, della Pace: ulivo, colombe, vite e grano, purezza ovale del tabernacolo con una rosa per santa Rita. Penso anche all’Inno alla vita per la sede dell’Onu di New York, una Madre che leva le braccia al cielo, il suo ultimo messaggio di Pace. Era il 1988.

N.D.P. – “Io lavoro perché mi è una necessità indispensabile all’anima. Per il resto, se vi è qualcosa da dire, penseranno i miei disegni e le mie sculture”. Da questa frase dell’artista si può dedurre che le due figure, Manzù uomo e di Manzù pittore, abbiano sempre coinciso?

I.M. – Le rispondo con una frase di Manzù: «Io sono nato scultore anche se non sapevo cosa fosse uno scultore e cosa fossi io stesso. Fare lo scultore è una cosa tremendamente difficile». Più chiaro di così.

N.D.P. – Sculture in bronzo, in alabastro, disegni, bassorilievi ed opere grafiche. Giacomo Manzù ha praticamente creato di tutto, plasmando ogni materiale ma la sensazione che si ha passando in rassegna le sue opere è che avesse una ‘predilezione’ per il bronzo. Può confermarci questo? Qual era il suo rapporto con questo materiale?

I.M. – La predilezione per il bronzo deriva dal fatto che Giacomo amava plasmare con le sue mani l’opera. Sentiva le sue mani come strumento del pensiero e del cuore. Tanto è vero che quando finì la Portadella Morte in San Pietro, nell’angolo in basso, mise l’impronta della sua mano destra, «mano che dona – scrisse l’amico don Giuseppe Sandri – palma distesa, dita aperte, polpastrelli premuti, Ultimi e perfettissimi strumenti, soli capaci di captare l’onda dell’estasi per tradurla via via nella creta e nel bronzo». Amava confrontarsi anche con il marmo e con l’ebano, bello e durissimo, vivo come se avesse il sangue nelle vene mi diceva Giacomo. Era come una sfida.

N.D.P. – Nelle sculture di Manzù convivono sempre il messaggio ideale e la passione artistica che prende forma sotto le mani dell’artista. I due elementi hanno sempre vissuto in un equilibrio perfetto o talvolta l’uno ha prevalso sull’altro?

I.M. – Non so se può dire equilibrio perfetto. Né si può dire che fossero due elementi distinti.Erano un tutt’uno della sua persona. Imprescindibile nella passione artistica era il messaggio ideale della bellezza. Imprescindibili i suoi ideali anche nei vari temi: la giustizia, la pace, l’attenzione ai poveri e agli oppressi, l’amore. Tutto si tiene nella sua arte. 

N.D.P. – Può farci un ‘ritratto’ anche del Manzù meno conosciuto, quello poeta e scenografo?

I.M. – Dovrei parlare per ore e ore delle sue scenografie e dei suoi costumi per le opere di Stravinskij, Petrassi, Wagner. Ho seguito da vicino quella sua attività, da non considerarsi secondaria, ma parte integrante della sua arte. Già negli affreschi della Villa Ardiani del 1932, raffigura la Musica, mentre accanto a Violino e Liuto, dipinge uno spartito con la scritta Stravinski. Nell’opera Edipo Re, musicata proprio da Stravinskij, che venne a casa a Roma, l’umile sedia dell’infanzia, isolata sulla scena diventò trono. Questa volta Manzù vi depose elmo, drappo e lancia, suscitando il senso di un dramma al tempo stesso grandioso e domestico. I costumi erano studiati rigorosamente in ogni piega e colore con l’incontentabile ardore di quando plasmava le sculture. Così sul palcoscenico si muovevano e agivano non attori che indossano un abito, ma sculture, o meglio, creature di uno scultore (“il corpo umano è un tempio in movimento”, disse Rodin, tanto ammirato da Manzù). 

N.D.P. – Nel vasto ‘patrimonio’ lasciato dall’artista, qual è l’opera da lei preferita?

I.M. – Non posso che essere imparziale: le sculture nelle quali Manzù mi ha ritratto con tutto il suo amore: dai Passi di danza ai Ritratti, ai Busti anfora, dagli Amanti a Guantanamera al Pittore e la modella… E poi gli infiniti fogli di disegno.

N.D.P. – Quali sono le finalità principali del Museo Manzù?

I.M. – La prima idea del Museo mi venne negli Anni Sessanta quando ad ogni opera che lasciava lo studio-fonderia di Ardea provavo un grandissimo dolore. Così pensai che una Raccolta (così si chiama il Museo) di opere, nel loro accostamento, avrebbe accresciuto lo splendore e il significato di ciascuna. Lo scopo si trova benissimo espresso nelle parole inaugurali del 22 maggio 1969 di Alexandre Rosemberg. La Raccolta sarebbe stata un museo diverso dagli altri, un centro vitale di studio e di appuntamenti artistici per la comprensione e il godimento dell’arte di un grande artista contemporaneo, “un luogo da visitare per capire interiormente la sua natura, come l’accedere alla dimora di una persona che il conoscere e il frequentare sia fonte di luce e di gioia”. Parole valide ancor oggi che la Raccolta Manzù di Ardea, donata allo Stato da Manzù, è diventata patrimonio della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Parole ancor valide per la Fondazione Manzù, che ho l’onore di presiedere con i miei figli Giulia e Mileto, il cui più recente impegno e la collaborazione per la mostra nel Palazzo Granafei Nervegna, di Brindisi.

Grazie a Inge Manzù, scomparsa a maggio di quest’anno. Ne ricordiamo con questo omaggio la sua grande disponibilità e la sua forte passione per l’arte.

INFO http://www.giacomomanzu.com

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